Libro con copertina morbida, pag. 456.
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All’inizio dell’età moderna nel Mezzogiorno aumenta la popolazione e con l’inflazione cresce il divario nella società. Insieme con la composizione sociale mutano i rapporti tra le classi. I ceti elevati si avvalgono del mutamento delle condizioni economiche. Il reddito di lavoro resta notevolmente indietro all’aumento del costo della vita mentre rendita e profitti crescono molto più dell’inflazione monetaria. Cresce il gravame fiscale e il prelievo si sposta in gran parte dai beni al consumo allo scopo di aumentare le entrate insufficienti di città e terre per tentare di colmare i loro cronici disavanzi e di estinguere i loro ingenti debiti. L’aumento e la diffusione delle imposte indirette sul consumo si verificano tanto nelle province quanto nella capitale del regno, insieme con la crescita del potere economico e sociale dell’aristocrazia feudale e cittadina. Il potere regio si va sempre più indebitando e indebolendo ma non abdica mai alle sue funzioni e al suo ruolo, non rinuncia mai a imporre la propria autorità e conserva un minimo di forze con cui cerca sempre di frenare i crescenti interessi di parte delle forze centrifughe prevalenti su quelli pubblici e dei ceti sociali più deboli. L’autore rende vivo un mondo di rapporti complesso e contraddittorio, fa giustizia di esagerazioni e opinioni preconcette e fa luce su uno dei più critici e interessanti periodi del passato del Mezzogiorno.
omissis
Il mezzo secolo che va dagli ultimi decenni del Cinquecento ai primi
del Seicento, cui si riferisce questo libro, copre un arco di tempo
dei più critici della storia economica e sociale italiana ed
europea. L'inflazione monetaria diviene galoppante e raggiunge punte
estreme; e l'aumento dei prezzi seguito assai da lontano
dall'aumento dei salari agisce in vario modo sui redditi e specie
sui proventi degli investimenti e delle attività economiche. Il
divario dei prezzi con i salari, con le rendite e con i profitti ha
immediati riflessi nella società: effetti molto diversi e, talvolta,
opposti sono evidenti nei percettori di reddito di lavoro, da una
parte, e nei titolari di rendite e negli imprenditori, che impiegano
capitali in investimenti commerciali e in lucrose operazioni
finanziarie, dall'altra. Certo, in quest'ultimo caso, quando
l'impiego era a lungo termine, i danni che derivavano dalla perdita
di valore della moneta potevano superare talvolta i vantaggi
derivanti dall'alto lucro e dal frutto del capitale. E non di rado,
perciò, talune imprese commerciali subivano imprevisti e improvvisi
rovesci, nonostante gli elevati profitti derivanti dalle operazioni
in corso, giacché il capitale a lungo immobilizzato era notevolmente
decurtato nel valore. Ma se si escludono alcune frange di attività
finanziarie e commerciali, il possesso della terra e il capitale
investito erano in genere realmente ben remunerati. Proprietari ed
imprenditori trovavano il modo di accrescere rendite e profitti
ricorrendo quanto più potevano al frequente rinnovo dei contratti
agrari, all'elevazione dei canoni di affitto della terra e alla loro
esazione in natura, all'impiego del denaro a breve termine e ad
elevata remunerazione. Si può dire che in genere i ceti sociali
detentori di beni e di capitali profittarono largamente dell'aumento
dei prezzi; accrebbero i loro patrimoni e spesso acquisirono e
consolidarono nuove e più solide posizioni economiche. I ceti
sociali meno abbienti e più numerosi, dai piccoli proprietari ai
percettori di reddito fisso e di lavoro, subirono evidenti effetti
negativi per la viscosità di redditi e di salari rispetto al molto
più celere ed elevato aumento dei prezzi. Gli effetti
dell'inflazione furono dunque duplici: altamente positivi sui ceti
più elevati e affatto negativi sui ceti meno abbienti e più
numerosi. Il divario nella società, prodotto o meglio accresciuto
dall'inflazione nel periodo critico qui trattato, è conosciuto ormai
abbastanza bene per merito dei numerosi studi sulla rivoluzione dei
prezzi in Europa e in Italia, dei quali è superfluo fare qui
menzione. Questo libro non si occupa di tutto ciò. Ma
presupponendone la conoscenza cerca di individuare e di inquadrare
nel contesto sociale e nelle sue stratificazioni interne la
consistenza e l'incidenza della pressione fiscale nel critico mezzo
secolo, sconvolto per altro verso da profondi mutamenti economici e
sociali. Solo che occorre tenere conto della intima e reciproca
connessione tra componenti sociali e loro mutamenti, da una parte, e
reale incidenza del prelievo sulla entità dei redditi, dall'altra.
Il divario tra ceti diversi che si accrebbe nella società a causa
dell'inflazione causò a sua volta la diversa incidenza della
pressione fiscale sui vari settori sociali; e nello stesso tempo
l'ulteriore accentuarsi di quel divario fu pure effetto della
diversa incidenza fiscale sui beni, sui redditi e sulle risorse dei
cittadini. Questo libro trae origine da ricerche condotte a più
riprese in Italia e all'estero. Il tema, che è andato intanto
maturando, è stato sviluppato di recente, essendosi offerta la
possibilità di esaminare accuratamente interi fondi di diversi
archivi. La massa dei documenti ha fornito elementi e dati che hanno
consentito di condurre un discorso organico e comprensivo del
complesso argomento. Con il loro impiego è stato possibile costruire
tabelle dimostrative, fare comparazioni di casi diversi e indicare
percentuali e differenze. La loro utilizzazione e la precisa
indicazione di casi concreti hanno altresì reso possibile chiarire
ogni aspetto, anche il meno appariscente, del sistema fiscale e
tributario e individuare i nessi più reconditi dei gravami pubblici
e della loro entità con le risorse economiche, con la consistenza
patrimoniale di individui, di famiglie e di ceti, e con il loro
potere sociale e amministrativo. E si è cercato così di individuare
e di spiegare nei suoi diversi aspetti un fenomeno la cui esistenza
è stata da me già intravista e messa in evidenza fin dal 1963 e la
cui spiegazione è stata però allora affidata più all'intuizione che
alla rigorosa dimostrazione scientifica. E data la natura degli
argomenti prevalenti si è tentato di accompagnare l'esattezza dei
dati e la precisione dei concetti con un certo [...].
omissis
Se si eccettuano alcuni brevi periodi nei quali qualche città fu autorizzata in via del tutto eccezionale a introdurre o a elevare le gabelle per accrescere le entrate da destinare alla ripresa e alla riedificazione all'indomani di epidemie e di guerre, nel Quattrocento e fino alla seconda metà del Cinquecento prevalse nelle terre e città del Mezzogiorno il sistema diretto di distribuzione del carico fiscale. Le imposte indirette furono un mezzo di prelievo che in genere, dove era impiegato, forniva una parte non cospicua delle entrate cittadine. All'estensione e all'accrescimento delle gabelle l'università meridionale pervenne dopo, negli ultimi decenni del '500, quando le sue finanze erano già dissestate. Quando infatti i debiti erano notevoli e il disavanzo annuo era ormai cronico e non si sapeva come colmarlo, terre e città deliberavano di accrescere le entrate mediante l'introduzione o l'aumento delle gabelle. Almeno inizialmente, in tutte era fermo il proposito ufficialmente manifestato di riportare la finanza cittadina alla normalità, sgravandola dai debiti e pareggiandone il bilancio. E i propositi di affrancarsi almeno parzialmente dai creditori, che in qualche caso divoravano gran parte delle entrate annue, furono talvolta seguiti da effettivi tentativi di estinguere una porzione del debito mediante la restituzione del capitale in un certo numero di anni. In alcuni casi in cui la parte del debito da affrancare era cospicua, si formulava il proposito di accrescere in misura ingente le entrate annue per via dell'aumento delle gabelle e di destinare una notevole porzione dell'entrata globale cittadina, che poteva raggiungere il 50 per cento, alla restituzione in un decennio della quota di debito che si voleva redimere. In tali casi, di cui uno può essere quello in verità alquanto raro della terra di Castrovillari, che contava 1138 fuochi, cioè circa 5700 abitanti, si portava l'aliquota della gabella della farina a un livello molto alto e si chiedeva l'assenso regio ad applicarla per un decennio, allo scopo appunto di destinarne il ricavato all'estinzione parziale dei debiti. E Castrovillari aveva nel 1598 142.000 ducati di debiti, che equivalevano in media a circa 30 ducati per abitante. Una somma enorme, che divorava ogni anno una notevole quota dell'entrata cittadina e che la città decideva nel 1598 di riscattare parzialmente, restituendo in un decennio il 39,5 per cento del debito globale, cioè 56.000 ducati su 142.000. Per restituire quell'importo a creditori genovesi aveva bisogno di un'entrata supplementare di 7000 ducati da destinare allo scopo: e la città trovò nel 1598 il mezzo per procurarsi quell'entrata elevando a 4 carlini su ciascun tomolo l'aliquota della gabella della farina. Aggiungendovi il gettito di un'altra gabella molto modesta, riusciva a introitare i 7000 ducati di cui aveva bisogno. Ma oltre che di questa entrata aggiuntiva, la città disponeva di un'entrata ricavata da altre gabelle, poste su diversi generi di consumo e su prodotti vari, e da collette, cioè da imposte dirette sui beni e sui redditi, di altri 7000 ducati annui, che destinava al pagamento degli interessi ai creditori della restante parte del debito cittadino, alla corresponsione dei pagamenti fiscali alla regia corte e alle spese correnti. L'eccezionale sforzo al quale la città si sottoponeva, che era reso possibile mediante il ricorso all'imposizione ai cittadini dell'alta aliquota della gabella della farina, si aggiungeva al gravame al quale si sobbarcava d'ordinario per far fronte alle elevate spese di bilancio mediante il ricavato di altre gabelle e, in parte modesta, di imposte dirette. Non sappiamo quale effetto abbiano avuto i propositi di riscattare una parte dei debiti, e non è noto se la città sia riuscita ad impedire che i 7000 ducati di entrata straordinaria, ottenuti mediante l'eccezionale aumento della gabella della farina, «sì convertano in altro uso eccetto in estintione di detto debito». Ma appare chiaro che a fine secolo il solo mezzo che consentiva di tentare di mettere in atto propositi di risanamento e di sostenere sforzi eccezionali era il ricorso alle gabelle, che comportavano oneri enormi. In genere i crescenti gravami consentivano solo di procurarsi maggiori entrate, appena indispensabili a far fronte alle spese e a pareggiare il bilancio. E allo scopo di coprire il disavanzo annuo un numero crescente di terre e città fece ricorso all'aumento delle gabelle nelle aliquote e nel numero. Già negli anni '70 nella terra di Guardia Lombarda le gabelle esistenti subivano un aumento medio del 32 per cento e si introducevano gabelle nuove su altri generi e su altri cittadini. Le gabelle che già esistevano dal 1572 registravano un notevole aumento nel 1578. Più di tutte aumentava la gabella della farina, del 66,6 per cento rispetto al 20-40 per cento delle altre gabelle. E oltre che nell'aliquota le gabelle aumentarono nel numero: gabelle nuove furono imposte sulla carne, su ogni cittadino «che si assenterà da detta terra» e su ogni cittadino «che sta a padrone» [...].