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Onorata società e società onorata

Libro con copertina morbida, pag. 608.


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L'associazione mafiosa è perseguita e talvolta duramente colpita, ma continua a sussistere, a resistere e a reclutare affiliati. Qual è la causa della sua vitalità e della sua capacità di resistenza e di aggressività? È stato insufficiente o male indirizzato lo sforzo fatto dalle istituzioni per debellarla? Per trovare la risposta a queste e ad altre domande del genere l’autore ha esaminato le origini, la crescita, la costituzione e il carattere dell’associazione fuorilegge e, non avendo trovato esaurienti spiegazioni, ha scavato in profondità, al di là di quel che di solito si osserva. Ha trovato nella società civile la fonte del reclutamento di tanti affiliati e la causa del radicamento di un’associazione tanto perniciosa, della sua vitalità e della sua capacità di reclutare e di sussistere nonostante tanti ostacoli e tanta persecuzione.


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In seguito alla sua costituzione l’onorata società si andò radicando in alcune città e contrade regie e feudali della Campania, della Sicilia occidentale e della Calabria meridionale. La sua nascita e la sua diffusione non ebbero alcun nesso con il feudo, con il sistema politico e con gli enti locali. I suoi componenti non avevano niente a che vedere con i bravi dei baroni e, dopo l’eversione della feudalità, non furono i loro prosecutori. Non si possono scoprire le sue origini cercando nella società del passato un capro espiatorio. Eppure molti autori finora non hanno fatto altro. Attribuirono a qualcuno o a qualcosa la causa delle origini e della diffusione dell’associazione mafiosa. Addossarono la colpa di quella calamità al feudo, ai baroni e ai loro bravi. Specialmente dalla seconda metà dell’ottocento, da quando cioè si cominciò a vedere nei bravi, operanti nel feudo i progenitori dei mafiosi, numerosi autori indicarono nella società del passato la radice della mafia.

La tesi da loro sostenuta è stata poi utilizzata per adattare il particolare fatto storico al presupposto ideologico. È divenuta un utile strumento di cui si servirono politici e congressisti per spiegare che la mafia fu un prodotto della società feudale e i mafiosi i prosecutori dei bravi dei baroni. In epoca assai vicina a noi, nel corso di un convegno tenuto nel 1976, un parlamentare del partito comunista non ebbe alcun dubbio nel sostenere che la mafia aveva operato in epoca feudale «a garanzia della grande proprietà fondiaria e in funzione di repressione anticontadina». Con altrettanta sicurezza spiegò che, anche dopo la fine della feudalità, la mafia fu uno strumento posto a difesa della ricchezza e della terra e che «questa mafia, questo ruolo storico e politico lo conserva ancor oggi». Nel manifestare tanta sicurezza, che dovrebbe essere fondata su un esame approfondito di fatti storici, egli fu al contrario di tutt’altro avviso e spiegò che «non bisogna[va] in questa conferenza fare letteratura o riportare, appunto, analisi storiche». Ma contraddiceva subito questo suo assurdo proponimento e trovava nel passato le prove che dovrebbero dimostrare la fondatezza della sua tesi. Trovava nel passato le prove di una tesi che non era solo sua, ma era assai diffusa, sostenuta [...]
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Fu sempre evidente l’enorme capacità della mafia di resistere ad ogni avversità. Per spiegarne la causa molti autori hanno indicato il potere dello Stato poco volenteroso nella prevenzione e poco efficace nella repressione. Altri hanno chiamato in causa il sistema borghese e capitalistico. Qualcuno ha sostenuto che la mafia era ad esso funzionale. Qualche altro ha indicato la capacità dell’associazione mafiosa di strumentalizzare quel sistema e di utilizzarlo ai propri fini.

Tentativi del genere, fatti da quando l’associazione mafiosa diede i primi segni della sua esistenza, sono giunti alla conclusione che la mafia fu sempre un sistema avulso dalla realtà circostante, che operò contro lo Stato e contro la società, che approfittò della loro assenza e che giunse a condizionarli.

A questa tesi ha fatto obiezione quella di pochi autori secondo cui la mafia non poteva essere considerata qualcosa d’altro, un sistema contrapposto allo Stato e alla società. Leonardo Sciascia è stato il primo a sostenerla. Nel 1972 spiegava che la mafia in Sicilia «contiene e muove interessi economici e di potere di una classe che approssimativamente possiamo dire borghese; e non sorge e si sviluppa nel vuoto dello Stato (cioè quando lo Stato, con le sue leggi e le sue funzioni, è debole e manca) ma dentro lo Stato». Un decennio dopo Umberto Santino chiamava in causa anche lo Stato e il suo potere, ma per spiegare che la «borghesia mafiosa», cioè «lo strato borghese, del gabelloto nel latifondo siciliano prima, dell’imprenditore mafioso» poi, svolgeva un ruolo dentro lo Stato e non contro lo Stato. Per spiegare cioè che il settore alto della mafia era parte della società e non agiva contro lo Stato.

La totalità degli autori dunque ha sostenuto che la mafia condivise interessi di classe. La maggior parte di essi ha spiegato che essa fu un sistema a sé stante e che, muovendo interessi di classe, agì contro lo Stato. Pochi di essi hanno sostenuto al contrario che la mafia mosse interessi di classe, ma dentro lo Stato e non contro lo Stato.

Tanti autori hanno visto nel potere politico e sociale un punto di riferimento al quale hanno attribuito la causa della capacità di resistenza dell’associazione. Hanno spiegato che nell’associazione i grandi proprietari e i detentori di capitali formarono la dirigenza, la parte alta, ed ebbero saldi legami di alleanza e comuni interessi vitali con il potere politico, da loro sovente impersonato. Hanno sostenuto che pertanto l’associazione fu uno strumento di repressione, perché fu proprio l’interesse dei ceti dominanti «a mantenere le posizioni di privilegio conquistato nel corso dei secoli e a impedire che i ceti medi si trasformassero in una borghesia imprenditoriale moderna [nonché a rafforzare] le basi [...] del sistema di potere mafioso e dell’intrico di complicità e di connivenze col potere formale dello Stato [...]». Queste conclusioni cui è giunta la Commissione parlamentare nel 1976, concernenti i rapporti della mafia con i ceti dominanti, sono state universalmente condivise allora e nei decenni seguenti e, con qualche trascurabile variante, hanno formato il contenuto di numerosi scritti, di cui è utile fornire un saggio. […]
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