Libro con copertina morbida, pag. 284.
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Per sordidi motivi importanti fatti storici sono divenuti preda di falsità e oggetto di diatribe. Alla costruzione di schemi seguirono opposte posizioni sfociate, non di rado, in detrazioni, cavilli, acrobazie e plagi. Leggendo questo libro si può tuttavia capire che cosa è realmente avvenuto nell’economia e nella società del Mezzogiorno d’Italia in età moderna: tra l’ altro, crescita o recessione?
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Le entrate delle città calabresi indebitate negli ultimi decenni
del XVI secolo non bastavano a coprire le indispensabili spese e il
costo dei debiti accumulati a causa di evasioni, esenzioni e
privilegi. Fu necessario estendere il carico fiscale spostandolo in
buona parte dal valore dei beni al consumo mediante l’istituzione e
l’aumento di imposte indirette, le gabelle, in aggiunta o in
sostituzione delle imposte dirette. Questa tesi fu costruita in uno
scritto del 1963 mettendo insieme dati ricavati in massima parte da
documenti inediti. Nessuno prima aveva mai dimostrato o solo
indicato l’esistenza dell’estensione e dello spostamento del carico
fiscale. Nel 1963 non se ne sapeva alcunché. Certo si avevano
notizie dei soprattutto nel malgoverno spagnolo. Alcuni storici,
come Ludovico Bianchini, Nicola Santamaria, Giuseppe Coniglio, si
erano intrattenuti su questo e su altri aspetti particolari, a sé
stanti, staccati gli uni dagli altri, la cui conoscenza non induceva
certo a capire l’insieme, l’andamento generale e le sue cause. Non
era noto il mutamento del rapporto tra fisco e contribuenti che
c’era stato nel XVI secolo. Si ignoravano lo spostamento del
crescente carico fiscale, le sue cause e i suoi effetti che tanto
avevano influito sulle condizioni e sui rapporti sociali, sulle
variazioni e sugli sconvolgimenti demografici e sulla condotta degli
uomini spinti a darsi alla protesta e alla ribellione, ad alimentare
le rivolte e a fornire reclute al banditismo. Nel 1963 Caracciolo
dimostrò il profondo mutamento che c’era stato nelle finanze e nel
fisco delle città del regno di Napoli durante il cinquecento, le sue
cause e i suoi effetti. In un suo libro uscito due anni dopo, nel
1965,Giuseppe Galasso contestò la dimostrazione che era stata fatta
ritenendola insoddisfacente perché, a suo avviso, avrebbe dovuto
essere fatta partendo da «una base assai più ampia». Ma egli non
spiegava che cosa fosse quella «base assai più ampia» e quel che
accennava per spiegarla era un insieme di parole e di frasi
generiche che non avevano un significato, non aggiungevano alcunché
alla conoscenza e non spiegavano qualcosa che sostituisse o
integrasse la conclusione a cui si era giunti due anni prima. Va
osservato che analoghe spiegazioni generiche furono sempre frequenti
negli scritti di Galasso. Non solo in quelli di vecchia data, ma
anche in articoli recenti sui temi più diversi. Se si intrattenne
sul «legame spirituale che manca in Europa», [...]
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Oltre quelli indicati, altri «fattori» hanno contribuito, secondo
Galasso, a causare «l’inversione del rapporto tra popolazione e
risorse». In primo luogo la serie delle crisi agrarie che si ebbero
dalla metà degli anni ‘80 all’inizio degli anni ‘90 del Cinquecento,
in un periodo in cui appaiono «sul mercato mediterraneo grani
balcanici anatolici e polacchi a più basso prezzo». In secondo luogo
il generale fenomeno di urbanizzazione, diffuso nel regno, nelle
città di provincia e nella capitale, «che allontana dalle campagne —
e, quindi, dalla produzione — un numero ragguardevole di braccia»,
senza però creare «un problema di carenza di manodopera agricola»,
ma certo accrescendo la quota di popolazione che le campagne
meridionali debbono mantenere». In terzo luogo è «un problema di
destinazione sociale delle risorse disponibili nel periodo delle
‘vacche grasse’ per l’ulteriore espansione». Questi principali
«fattori» dovrebbero dimostrare che tra gli anni ottanta e gli anni
novanta del Cinquecento si ebbe nel regno il sorpasso: l’aumento
della popolazione superiore all’aumento della produzione. A mio
avviso i «fattori» indicati da Galasso non sono idonei a provare
che, in quegli anni, abbia avuto inizio un mutamento del ritmo di
crescita di alcuni settori e un conseguente sorpasso. La serie di
crisi agrarie fu temporanea, durò pochi anni, e nulla ci autorizza
ad affermare che, al termine di quei pochi anni, la produzione non
abbia ripreso a crescere a un ritmo sostenuto, superando
notevolmente il livello che aveva raggiunto prima della crisi e
continuando a crescere anche in seguito, durante il Seicento, con
alti e bassi, più dell’aumento della popolazione. Il decremento
demografico nelle campagne, che si ebbe in certi periodi del
Seicento, non fu mai tale da potere determinare una certa
diminuzione dell’offerta di lavoro e della produzione. L’aumento
della produzione non può essere stato neppure condizionato, e quindi
rallentato, dalla presenza di prodotti concorrenti, come il grano
dei Balcani e della Polonia, apparsi nel Mediterraneo, e dalla
urbanizzazione di parte della popolazione delle campagne. Almeno
dagli anni di fine secolo XVI non c’è stato alcun segno che indichi
diminuzione della domanda di terra da coltivare e conseguente
rallentamento dell’aumento della produzione. A provare ciò è il
peggioramento, allora e poi, delle condizioni di concessione della
terra imposte dai proprietari ai contadini. Già peggiorate negli
anni Sessanta del Cinquecento rispetto ai primi decenni del secolo,
tali condizioni persistettero e, in non pochi casi, continuarono a
peggiorare nella seconda metà del secolo XVI e nel corso del
Seicento. Nella seconda metà del secolo XVII i contratti agrari
continuarono a essere gravosi e, in certi casi, molto più gravosi
che nel passato per il contadino e più vantaggiosi per il
proprietario. Il «massaro» o il coltivatore era alla mercé del
proprietario della terra, che gli imponeva condizioni onerose, molto
più gravose di quelle, ancora accettabili, che erano state nelle
concessioni di terra negli anni ‘60 del Cinquecento. Tali pesanti
condizioni imposte al contadino dimostrano che, sul fronte della
manodopera, persisteva notevole la domanda di terra, l’offerta di
lavoro, e che la produzione era remunerativa per il proprietario.
L’alta remunerazione, specie di taluni prodotti, era assicurata
soprattutto dall’esportazione. E l’ampio sbocco costituì allora un
potente incentivo, che indusse il ceto proprietario a ricavare il
maggior prodotto possibile dalle sue concessioni di terra e da nuovi
investimenti. Da ciò che è avvenuto in alcune zone del Mezzogiorno
si può dedurre che, specie dal 1620 al 1640, le culture furono
intensificate ed estese a terre incolte. Vedremo che si trattò di
casi indicativi di un fenomeno dal quale emerge, quanto meno, che
nella prima metà del Seicento, ci fu convenienza a mettere a cultura
terre non mai coltivate prima, […]
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