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Libro con copertina morbida, pag. 188.
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«[…] Quanto diverso fu l’andamento dell’economia meridionale da quello di altri Paesi! L’espansione economica che si verificò nel Cinquecento e che, nonostante la diminuzione della popolazione, proseguì nel Seicento, non si tradusse in crescita economica e in sviluppo. […] Nonostante i mutamenti indotti, derivanti dall’emulazione, si restò alla produzione agraria e del semilavorato. L'enorme produzione di seta grezza e, poi, filata non divenne mai produzione tessile, tranne che in esigue quantità. Nonostante la lunga favorevole congiuntura estera, l'enorme impulso produttivo e il prodotto tanto richiesto dal mercato continuarono ad alimentare il lavoro e ad accrescere la struttura produttiva di altre aree e di altri Paesi. […]».
omissis
Dall’esame dei dati delle dogane di cui si sono serviti alcuni studiosi per ricostruire l’andamento del commercio con l’estero, risulta che il volume dell’esportazione dal Regno è aumentato fino agli ultimi decenni del Cinquecento ed è andato diminuendo fino ad appiattirsi nei decenni successivi. L’esame di alcuni libri tenuti dagli erari dei baroni in cui sono annotate le rendite, di alcune «platee» compilate di tanto in tanto dagli ufficiali regi e contenenti l’elenco dei beni dei baroni con le relative rendite e di altri documenti, come i «relevi», redatti a scopi fiscali, ha consentito ad altri studiosi di ricavare dati e notizie e di servirsi di essi per ricostruire l’andamento delle rendite feudali ed agrarie e, a loro avviso, della produzione. È risultato che, come l’esportazione, anche la rendita agraria e la produzione sono cresciute fino al 1580-1590 e hanno rallentato nel Seicento la loro crescita.
L’importanza di tali risultati è notevole e, dunque, conviene accertarne la validità.
Il grano, il vino, l’olio e la seta erano prodotti che in rilevante quantità eccedevano il fabbisogno interno. Nonostante ciò, il grano e il vino non erano esportati liberamente. Il timore di annate scarse e la preoccupazione di assicurare l’abbondanza, la «grassa», inducevano spesso il governo a limitare e, in certi anni, a proibire l’esportazione dei due prodotti. Sembra che nel corso del secolo XVI il regno, come altri paesi del Mediterraneo, sia stato autosufficiente, abbia prodotto grano a sufficienza negli anni magri e ne abbia esportato l’eccedenza negli anni di abbondanza. La soddisfacente produzione non impedì però che fossero frequenti gli anni di carestia, durante i quali spariva il prodotto e, se si riusciva a trovarne, si poteva acquistare a prezzi molto alti. Per evitare il disagio della popolazione di molte città che non erano riuscite ad approvvigionarsi in tempo, il governo cercò di assicurare l’abbondanza del prodotto all’interno del regno. Adottò misure restrittive per limitarne l’esportazione, autorizzando anno per anno, secondo approssimative previsioni, le quantità da esportare, che di solito non superavano quattromila «carri», mediante particolari licenze che concedeva ai richiedenti. Quando si prevedeva un raccolto abbondante, il governo autorizzava l’esportazione, apriva le «tratte», concedendo permessi per quantità superiori ai quattromila carri. Ciò avvenne di rado, negli anni 1559, 1569, 1574 e 1616. Di solito l’esportazione era molto limitata, quantunque in realtà il prodotto non fosse scarso e il governo avesse accertato che le sue stesse previsioni di un raccolto non abbondante erano inesatte. La carestia, che si manifestava in certi anni, era causata il più delle volte dalla speculazione di mercanti e di produttori anziché dall’effettiva mancanza del prodotto. A causarla era soprattutto l’incetta che si praticava sin dal tempo in cui il grano era ancora in «erba» per mezzo dei «contratti alla voce». Il compratore, mercante o barone o proprietario di terre, anticipava denaro ai produttori diretti di grano che, specialmente se erano piccoli, contadini o massari, avevano estremo bisogno di quell’anticipo. Non di rado anche produttori non piccoli, come gli enti locali, le università, erano a corto di denaro e ricorrevano a quegli anticipi. L’acquirente acquistava in tal modo il grano ancora in erba nella quantità che si sarebbe prodotta e al prezzo corrente al tempo del raccolto, cioè al prezzo più basso che il prodotto raggiungeva durante l’anno, nel periodo di abbondanza. L’acquirente non correva dunque alcun rischio, ma accaparrava per tempo il prodotto. Praticava così l’incetta, sovente in grandi dimensioni, preparandosi a nascondere il grano in capienti locali e in fosse sotterranee finché il prezzo del prodotto non sarebbe salito abbastanza da assicurare elevati profitti. Certo, affinché l’occultamento del grano potesse determinare l’aumento del prezzo del prodotto, occorreva che nel paese si profilasse l’eventualità della penuria e che, in alcune aree non produttrici o scarsamente produttrici di grano, si trascurasse di approvvigionarsi in tempo. La penuria nelle aree produttrici, causata dall’occultamento e da un raccolto più scarso di quello solito, cioè dalla diminuzione della produzione annua, era la condizione principale dell’aumento del prezzo del grano. La penuria rendeva efficiente e redditizia la speculazione e determinava la corsa all’approvvigionamento, che talvolta non era sufficiente a far durare le provviste delle città non produttrici fino al tempo del nuovo raccolto. Era perciò necessario che quelle città si procurassero il grano ad altissimi prezzi o ricorressero ad azioni illegali e semipiratesche.
L’incetta e la speculazione erano cause principali delle carestie. I produttori e gli speculatori preferivano tenere nascosto il grano anziché metterlo in vendita a prezzo non abbastanza alto. Ciò era evidente nei primi sei anni del governo del conte di Lemos, dal 1610 al 1616, durante i quali il viceré non aprì mai le «tratte», non autorizzò l’esportazione, provocando la rovina di molti agricoltori e frustrando la speculazione di coloro che preferirono fare marcire il grano nei granai anziché venderlo a prezzi bassi. Negli anni di carestia la popolazione di molte città che non avevano provveduto ad approvvigionarsi in tempo, rischiava di soffrire la fame se l’amministrazione cittadina non si sobbarcava all’onere di acquistare il grano all’alto prezzo che chiedevano gli speculatori. Non trascurabile era l’importazione del prodotto. Il grano era acquistato ovunque. Nel 1552 gli abitanti della città di Crotone attendevano un loro concittadino, Leonardo de Fiore, armatore e capitano di una nave, che svolgeva regolari traffici trasportando merci dalla e per la Turchia, di ritorno da Costantinopoli, dove «have carricato nel mar maggio-re in suo conto et have circa de giorni trenta che è partito dentro Costantinopoli dove erano stati circa due mesi per dar carrica alla sua nave et a conciarla de altro necessario». Ma la quantità di grano importato non poteva coprire il fabbisogno creato ad arte. La penuria affliggeva l’intera popolazione del Regno e non si poteva eliminare importando quantità più o meno grandi di grano. In fondo il grano era sufficiente al fabbisogno e la sua mancanza negli anni di carestia era da attribuire all’impossibilità della maggior parte della popolazione di accedere agli alti prezzi di acquisto del prodotto tenuto nascosto dagli speculatori. Capitava che, quando una città era minacciata dalla fame, ricorreva anche al sequestro di navi cariche di grano che entravano nel suo porto, benché fossero dirette altrove. Il sequestro consentiva di approvvigionarsi in un momento di estrema necessità, pagando il grano a un prezzo equo, cioè al prezzo al quale sarebbe stato venduto qualora il prodotto fosse presente sul mercato, che era un prezzo molto inferiore a quello richiesto dalla speculazione. Questi atti sono indicativi dell’estremo bisogno cui giungeva talvolta la popolazione. Ad essi fecero ricorso alcune città del regno, nonostante il timore di provocare le punizioni che avrebbe loro inflitto il governo di Napoli. Nel vicino regno di Sicilia, Messina era afflitta nel 1591 dalla carestia e ricorreva al sequestro di alcune navi cariche di grano provenienti dalla Puglia e dirette a Napoli. L’atto provocava le proteste e le minacce del governo. Da Napoli si facevano rilevare al sovrano le conseguenze che avrebbe potuto avere quell’azione piratesca. Si temeva che il sequestro potesse costituire un precedente e indurre non solo Messina ma altre città a ricorrere, ogni volta che fossero costrette dalla necessità, ad analoghe azioni illegali che avrebbero messo in pericolo la sicurezza e la continuità dei trasporti di grano dalla Puglia a Napoli che passavano per lo stretto di Messina. Ma contro la fame nulla potevano i divieti e i rimedi del governo. […]
omissis
Nei feudi grandi e piccoli i baroni andarono traendo nel corso del Seicento la loro ricchezza solo in minima parte dall’esazione di canoni e di diritti feudali. Essi avevano da tempo accresciuto canoni, diritti, prerogative e titoli feudali. Li avevano accresciuti tra gli ultimi decenni del Cinquecento e la prima metà del Seicento, quando il potere regio li aveva loro ceduti e venduti a piene mani. Nella seconda metà del Seicento continuarono a usufruirne; continuarono a trarre da quei diritti e possessi feudali una parte delle loro entrate, ma una parte molto minore di quella che ora, nella seconda metà del Seicento, traevano da attività commerciali e imprenditoriali, in massima parte illegali e fraudolente: dall’incetta al contrabbando, all’appropriazione indebita di entrate fiscali e di denaro pubblico.
Nella seconda metà del Seicento ricavavano gran parte delle loro entrate dall’esercizio di imprese e dall’imposizione del monopolio, avendo portato agli estremi limiti quanto era iniziato molto tempo prima.
L’incetta e il contrabbando erano pratiche antiche e il governo le aveva sempre proibite. Il monopolio era sempre stato esercitato nello svolgimento delle loro funzioni e nella conduzione delle loro imprese dai feudatari, detentori del potere locale, contro i divieti del governo.
Nel Cinquecento massari, mercanti, proprietari, nobili, baroni avevano praticato l’incetta, nascondendo specialmente il grano in attesa di tempi propizi in cui si poteva vendere ad alti prezzi; e il governo, con le prammatiche emanate nel 1563, nel 1596, nel 1600 e nel 1622, aveva proibito quella pratica molto diffusa. Baroni, mercanti, proprietari ed ecclesiastici avevano esercitato il contrabbando inviando clandestinamente seta, grano olio e legname a Venezia, a Napoli e a Messina. In molti feudi i baroni si erano appropriati buona parte del rendimento di attività produttive e commerciali e della conduzione di alcuni servizi, di mulini e di forni. Avevano indotto molti produttori a vendere solo a loro i prodotti a particolari condizioni, come aveva fatto il principe di Bisignano nel 1549. Il governo aveva più volte proibito quelle pratiche, ma era sempre riuscito poco efficace.
Con l’inoltrarsi del Seicento, nei feudi, gli agenti dei baroni si andarono sempre più sostituendo ai massari, ai mercanti, ai proprietari, ai nobili nello svolgimento delle loro attività e specialmente di quelle illegali. E nella seconda metà del Seicento quelle attività, dall’incetta al contrabbando, furono svolte quasi esclusivamente per conto dei baroni.
Dappertutto i baroni, in buona parte provenienti dal commercio e dagli uffici e subentrati di recente nel possesso di feudi, acquistarono crescente potere e fecero uso di nuovi mezzi che si appropriarono o trovarono a disposizione. Accrebbero i gravami imponendo nuovi balzelli. Requisirono di fatto uffici ed enti e fecero nominare ufficiali e amministratori loro dipendenti ed esecutori a loro legati. Praticarono ed estesero al massimo lucrose attività illegali e monopolizzarono prodotti e servizi. Fecero coltivare terre concedendole a condizioni molto onerose per il coltivatore. Continuarono l’opera dei loro predecessori, che nella prima metà del Seicento avevano fatto trasformare terre brulle e poco fertili in giardini di gelsi con fabbricati per la produzione della seta grezza e in vigneti. Fecero esportare illegalmente la seta grezza che ora non solo incettavano ma producevano nei propri giardini. E in tutti i feudi sfruttarono ogni palmo di terra e ne fecero giardini e vigneti. In alcuni feudi provvidero a curare i giardini piantati su terre brulle dai loro predecessori negli anni Trenta del Seicento. Con l’impiego di capitale e di molta manodopera a basso costo, incrementarono quelle piantagioni, accrebbero il numero dei fabbricati in cui si produceva la seta e trassero ingenti profitti da quei loro investimenti. Nelle loro aziende produssero buona parte del prodotto che esportavano clandestinamente. In giardini di gelsi piantati in decine di ettari di territorio sorgevano molte «fabriche» in cui si allevava il baco da seta.
Tutto questo avveniva non solo nei grandi feudi, ma nei piccoli e piccolissimi.
Nel corso del Seicento con l’aumento del potere crebbe la ricchezza di forze semiautonome e centrifughe. Baroni e proprietari e, soprattutto, imprenditori regnicoli e forestieri che erano stati numerosi nel Cinquecento, divennero nel corso del Seicento veloci artefici di ingenti patrimoni.
Dai primi anni del Seicento va aumentando il numero degli imprenditori, che avevano operato e continuavano ad operare nel commercio, nelle speculazioni finanziarie, nel prestito di denaro, nel possesso e nella conduzione di banche e di uffici, e volgono ora le loro risorse all’acquisto di terre, immobili, titoli feudali e feudi. Svolgono il nuovo ruolo con l’interessato fervore imprenditoriale di attenti gestori protesi al massimo profitto e, in pochi decenni, molti di loro si arricchiscono spudoratamente. Traggono proventi, reddito e profitto dall’oculata gestione di possessi feudali e di proprietà private, dalla riscossione di rinnovati e vantaggiosi diritti e canoni e, soprattutto, da investimenti capitalistici e dall’esercizio di imprese e di attività lecite e illecite, legali e illegali.
Nei decenni di mezzo del Seicento e, specie, nella seconda metà del secolo la notevole intraprendenza e la febbrile attività in gran parte occulta di molti baroni e proprietari partorirono enormi fortune patrimoniali e un’incredibile accumulazione di capitale. Partorirono qualcosa che non sembra possibile se si fa un calcolo sulla base dei soli dati ufficiali e se si considera che un siffatto incremento, anche se occulto, si è verificato in decenni in cui diminuì notevolmente la popolazione; sembra pure impossibile perché di esso beneficiò quasi esclusivamente il ristretto ceto dominante e perché i dati ufficiali provano che, al contrario, ci fu decremento e stasi.
In realtà la popolazione è diminuita nel Seicento fino al 30 per cento in alcuni anni, ma è rimasta elevata l’offerta di lavoro. Ha ripreso ad aumentare nel secolo successivo. L’accumulazione di capitale colmò gli scrigni e accrebbe le sostanze e le disponibilità dei componenti di una minima parte della società. La massima parte della popolazione usufruì di una minima parte del flusso di denaro che giungeva dall’estero in cambio di prodotti esportati e che, in massima parte, era speso nella costruzione di enormi dimore specie nella capitale e nel mantenimento di un alto tenore di vita di baroni e proprietari o era destinato fuori del Regno. Non ci sono segni che inducono a credere in un sistematico impiego di quel denaro in investimenti produttivi nelle zone in cui si effettuava la produzione e l’esportazione dei beni. In quelle zone era investita solo la parte del capitale che era indispensabile alla produzione dei beni destinati in massima parte all’esportazione. Né ci sono segni degli effetti che l’esuberanza di denaro avrebbe dovuto e potuto produrre alimentandone un’offerta a basso costo.
A questo punto sorge una domanda. Perché, nonostante l’ingente accumulazione di capitale e il fervore produttivo e imprenditoriale che ne era all’origine, il Mezzogiorno restò in pista e non decollò? […]