Libro con copertina morbida, pag. 408.
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La migrazione di innumerevoli individui dai paesi arretrati sta assumendo il carattere di invasione e di silente occupazione dei paesi ricchi, che si fanno invadere e occupare per sostenere la crescita economica. I fatti rivelano che i paesi invasi riescono a conseguire crescita e progresso nell'immediato, ma con conseguenze che preludono a futuri risultati da dovere evitare correggendo la causa che li genera. Per scongiurare quanto gli stessi fatti e l'esperienza di vicende del passato fanno temere, l'autore di questo lavoro indica il rimedio da porre e la via da prendere che non si presenta di facile accesso. Cerca di rendere accettabile la necessità di imboccarla esaminando la situazione di alcuni paesi specialmente europei per indurre a riflettere sugli imprevisti che può riservare il futuro.
omissis
Gli europei una colpa ce l’hanno ed è quella di avere seguito
l’esempio degli americani. Incalzati dalla necessità di sostenere la
crescita economica e per far fronte alla propria carenza
demografica, hanno aperto le porte all’immigrazione. Per dimostrare
di saper soddisfare le esigenze cosmopolitiche della globalizzazione
scoperta di recente, si sono fatti invadere dalla marea montante di
milioni di immigrati. In pochi decenni hanno subìto un flusso
migratorio superiore alle proprie risorse e alle possibilità di
ricezione dei propri paesi. Non hanno avuto il tempo di avvedersi di
quanto stava avvenendo e di tentare di difendersi almeno
temporaneamente. A differenza degli statunitensi che in oltre due
secoli hanno cercato di scoprire gli antidoti per porre rimedio alle
conseguenze dell’ingordigia dei propri antenati, gli europei si
ritrovano oggi a subire gli effetti di una repentina trasformazione,
senza neppure potere tentare di contenerli. Ritenendo positiva
l’esperienza vissuta dagli americani ed essendo abbagliati dalla
sirena della globalizzazione, non si sono neppure preoccupati di
rendersi conto della minaccia che può costituire al carattere e
all’integrità di una società e di un popolo l’eccessiva multietnia e
promiscuità. Non hanno perciò neppure tentato di usare provvedimenti
per salvare il salvabile, per contenere almeno gli effetti
immediati, come hanno imparato a fare gli americani, che hanno avuto
tutto il tempo per assuefarsi all’inevitabile cambiamento, per
rendere apparentemente e temporaneamente innocui gli effetti
negativi della sostanziale trasformazione, del lento stravolgimento
del proprio carattere. Gli europei si possono dunque incolpare non
di avere ostacolato l’integrazione degli immigrati, ma di essere
stati incapaci di avvertire la minaccia costituita dalla loro
crescente presenza. E li ha resi incapaci non solo il poco tempo che
hanno avuto per riflettere su ciò che stava accadendo in casa
propria, ma anche la mancata profonda osservazione di ciò che era
accaduto ad altri nel recente e nel lontano passato. Come tanti
altri osservatori, si sono limitati ad ammirare gli innegabili
successi della società statunitense, i suoi enormi progressi, il suo
sviluppo economico e civile. Non hanno cercato di prevedere che cosa
potrà derivare in un non lontano futuro dall’eccessiva multietnia e
promiscuità di quella società, se in essa prevarrà l’eterogeneità
sulla omogeneità, la disgregazione sulla coesione, che le
istituzioni non saranno più in grado di mantenere. Ma gli europei
non hanno neppure tratto insegnamento da quanto offre una parte
importante del proprio stesso passato. Non hanno fatto tesoro di
quanto è avvenuto nei primi secoli dell’era volgare, quando nella
penisola italica si è avuta una trasformazione non dissimile da
quella che l’Europa si accinge a sperimentare nel presente. Anche
allora, in Italia, si è fatto ricorso all’immigrazione per sopperire
alla carenza di braccia da impiegare nella produzione e la penisola
si è popolata di milioni di individui provenienti da ogni parte del
mondo. In un clima cosmopolitico, che per certi aspetti somiglia
tanto all’odierna globalizzazione, si andò formando una società
multietnica e promiscua. Una società nuova che progredì nel
mutamento e, si può dire, nel sostanziale sconvolgimento e sfociò
nel tracollo proprio e delle istituzioni che l’avevano tenuta in
piedi per alcune centinaia di anni. Gli europei non si sono giovati
di queste esperienze antiche e recenti. Hanno invece navigato
secondo il vento della globalizzazione, che avevano contribuito a
far soffiare. Hanno assecondato la necessità di sostenere la
crescita economica importando immigrati, invece di curare i propri
costituzionali profondi malanni, come il consumismo, la corruzione
del costume, le sperequazioni, che la crescita economica contribuiva
ad alimentare. Nessuno dei pensatori, degli intellettuali e dei
politici dimostra che milioni di immigrati di etnìe e provenienza
più diverse vogliano integrarsi realmente. Nessuno di loro prova che
tanti individui intendano contribuire a realizzare una stretta
interdipendenza tra i membri della società in cui si trovano.
Nessuno fa capire se l’integrazione cui si riferisce debba essere
formale o sostanziale. Nessuno lo fa capire, benché tutti loro
indichino l’integrazione come obiettivo cui giungere mediante il
riconoscimento dell’identità individuale e la realizzazione
dell’uguaglianza reale, di ciò che mette in condizione i singoli
immigrati di disporre di beni e di servizi e di accedere alla
protezione sociale, al lavoro, alla scuola. Per rendere possibile
l’integrazione degli immigrati – secondo tanti pensatori – gli
europei dovrebbero dunque fornire loro casa, protezione sociale,
scuola, lavoro e libertà di esprimere le proprie identità
individuali e il proprio modo di vivere. Dovrebbero intendere
altrimenti la propria identità nazionale per non indisporre i nuovi
arrivati e i loro figli e per non urtare la loro suscettibilità.
Dovrebbero mutare tutto ciò che li lega alle proprie radici
sentimentali e culturali; e dovrebbero farlo in casa propria,
costruita con i mattoni di quella identità nazionale e di quella
civiltà e ora invasa da milioni di individui carichi del loro
retaggio di identità, di tradizioni, di culture e di religioni
spesso inconciliabili con quelle esistenti. Gli immigrati e i loro
intellettuali spiegano che il senso di appartenenza degli europei ai
propri paesi e alla propria storia «non dovrebbe essere cancellato,
ma reso quanto più possibile aperto ai nuovi cittadini». A loro
avviso, quel senso di appartenenza non dovrebbe essere cancellato
oggi, quando cioè i nuovi cittadini sono ancora in minoranza
numerica. Ma gli europei non possono sapere se il proprio senso di
appartenenza non dovrebbe essere e non sarà cancellato anche domani,
qualora i nuovi cittadini fossero cresciuti di numero. E poi, un
auspicio del genere formulato da non occidentali, è sconcertante.
Nemmeno popoli interi e omogenei di conquistatori pretesero, o solo
auspicarono, mai tanto dai popoli dei paesi occupati. Nemmeno i
barbari dai romani invasi. Ma oggi i non occidentali spiegano che
gli europei dovrebbero adeguarsi alle esigenze di una società più
vasta, globale. Dovrebbero svegliarsi, mutare i tratti essenziali
della propria identità e della propria civiltà per non essere
sopraffatti da nuovi venuti, che sono sicuri di sé e delle proprie
radici. Gli stessi pensatori non spiegano però quali dovrebbero
essere gli impegni e gli obblighi degli immigrati. Si limitano a
fare qualche constatazione. Mentre infatti indicano agli europei la
necessità di essere accoglienti e di mettere gli immigrati a loro
agio per evitare le loro violenze, Francis Fukuyama, uno di quei
pensatori, dimostra che numerosi immigrati giungono in Europa non
per trovare lavoro ma per il welfare, per usufruire della generosa
assistenza elargita loro dagli europei. […]
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omissis
In diversi paesi dell’Occidente è in atto da molti anni una più o
meno consistente diminuzione della natalità. Si verifica pertanto
che qua e là, nonostante l’apporto numerico degli immigrati, la
popolazione ufficialmente esistente è stazionaria. Un calcolo delle
Nazioni Unite, basato sull’andamento demografico dei primi anni del
duemila, concluse che, nei paesi sviluppati dell’Occidente, si
verificherà nei successivi decenni diminuzione e invecchiamento
della popolazione. La natalità sarà inferiore alla mortalità,
crescerà il numero degli anziani e diminuirà quello dei componenti
delle altre fasce di età. Il crescente numero di anziani peserà
sempre più sul reddito che produrrà la parte attiva e decrescente
della società. Si profila pertanto necessario il ricorso
all’immigrazione il cui apporto contribuirà a colmare il vuoto che
lascerà la diminuzione della popolazione attiva. Si calcola che
nell’Unione Europea la popolazione diminuirà notevolmente. Ferme
restando le dimensioni raggiunte dall’Unione nei primi anni del
duemila, la sua popolazione di 455 milioni di europei, sarà di 360
milioni nel 2050, mentre aumenterà il suo invecchiamento. Si rivela
pertanto necessario ricorrere a un numero crescente di immigrati che
forniscano manodopera a sostegno della crescita economica. In
realtà, gli immigrati contribuiscono in parte a sostenere la
crescita economica. In parte la loro presenza causa notevoli
inconvenienti ed entra in stridente contrasto con una società
propensa a sedersi e ad adagiarsi nella comodità anziché a
sottoporsi alla fatica e agli sforzi che impone la produzione di
ricchezza. Il loro contributo non colma definitivamente il vuoto
creato dalla carenza di produttori locali. Certo, a parte il margine
di parassitismo e di inadattabilità, gli immigrati sopperiscono solo
temporaneamente alla forza lavoro mancante. Alcuni di loro si
adeguano e aderiscono almeno formalmente ai valori culturali, morali
e costituzionali esistenti nella società che li ospita e di cui
fanno parte. Altri si sottopongono alla fatica dei lavori pesanti e
umili che riescono insopportabili a molta parte della popolazione
indigena. Fanno proprio il costume della società ospitante, ma
assimilano con il costume pure i vizi e i comodi esistenti. A quel
punto, gli immigrati e i loro discendenti non sono più disposti a
svolgere la funzione di sostituire energie carenti. Come fanno gli
ospitanti, non si sobbarcano più all’onere e alla fatica di lavori
pesanti e umili. È al contrario verosimile che esigano di svolgere
ruoli adeguati ai loro meriti. Ambientandosi e frequentando le
scuole ed emulando il modo di vivere degli altri cittadini,
assimilano ed emulano il loro costume. Esercitano i loro stessi
diritti di svolgere le mansioni più adeguate alle proprie
individuali attitudini. Rifuggono anch’essi dalla fatica di lavori
che non giudicano leggeri e qualificati. Così l’integrazione dei
figli e dei discendenti degli immigrati rende possibile che ciò che
era lontano e pressoché irraggiungibile per i loro padri e avi, è a
loro portata di mano. Hanno acquisito virtù e vizi degli altri
concittadini e, come loro, sanno far valere le proprie esigenze e
pretendono di svolgere mansioni appetibili o adeguate alle proprie
capacità. Si può dunque dire che l’evoluzione sociale degli
immigrati annulli la soluzione cui il loro afflusso e la loro
iniziale presenza avevano fatto giungere. In meno di una generazione
è possibile ritrovarsi al punto di partenza, alla riproposizione
dello stesso stato di necessità di importare immigrati che era stato
superato per qualche tempo. Sicché il ricorso all’immigrazione non
ha termine con l’immissione in un paese di un congruo numero di
individui. Il bisogno di nuove braccia si rinnova mediante la
formale integrazione. I comodi e i vizi di un popolo che ricorre a
energie esterne per progredire, si trasmettono infatti ai nuovi
venuti che intanto si vanno integrando o si sono già formalmente
integrati. Presto costoro saranno afflitti dagli stessi vizi e dagli
stessi comodi degli ospiti. E se non interverranno fattori nuovi,
l’apporto loro e dei loro padri non sarà più un rimedio, un antidoto
contro il ripresentarsi dello spettro della carenza di braccia. La
loro presenza rinvia soltanto il bisogno di soddisfare quella
carenza. Si crea un processo che accomuna il destino dell’odierna
società civile dell’Occidente a quello che ebbero nel lontano
passato popoli giunti a un elevato grado di civiltà, come il romano.
Identica è la decadenza fisiologica che affligge l’una e afflisse
l’altro. Non dissimili sono le sue cause. Non deve pertanto stupire
che oggi si nota impellente lo stesso ricambio di energie che nel
passato stanche società evolute subirono in varie epoche e per molto
tempo mediante iniezioni di forze vitali provenienti da razze e da
popoli diversi e spesso meno progrediti. Fu allora del tutto
naturale che si colmassero vuoti altrimenti incolmabili per rendere
possibile la crescita o l’esistenza stessa del corpo sociale. Ed è
presumibile che anche allora si facesse ciò nella persuasione che le
nuove energie vitali non sarebbero divenute tanto numerose da
affossare quanto esisteva. In fondo era salutare che nella società
decadente, entro certi limiti, le presenze di nuovi venuti, con
corpi dalle forme naturali e carichi di energie, integrassero
l’insieme delle sformate figure dei troppo civilizzati. L’odierna
umanità progredita non presenta caratteri dissimili da quelli degli
abitanti delle città e dei paesi evoluti di quel tempo. Come allora,
buona parte di essa non sopporta il peso del lavoro ritenuto
pesante. Non riesce a sostenere l’onere che comportano le
responsabilità del matrimonio e dei figli. Cerca più comodi e
spassi. Adora il dio oro e si affloscia sempre più. Senza volerlo,
si fa sempre più da parte e consegna così la propria dimora ad
ospiti eterogenei che giungono disperati, divengono presto
collaboratori e poi protagonisti in una società sempre più
irriconoscibile, profondamente diversa da quella che si è spogliata
del proprio carattere e delle proprie tradizioni e che nel tempo si
trasforma. È assai difficile tentare di frenare un processo del
genere. Nell’odierno clima di globalizzazione un tale tentativo è
non solo ritenuto anacronistico, ma anche segno di intolleranza e di
xenofobia. È giudicato senza appello, benché non abbia nulla di
esclusivista e di razzista. Non vuol dire rifarsi a un’origine
mitica, indiscutibile e irrevocabile, di un popolo, europeo o
statunitense, che preclude ogni accesso a chi non la possiede. In
ogni paese, povero o ricco, esiste certo un’identità collettiva da
difendere e tutelare. Essa è il risultato di tradizioni formatesi
nei secoli con gli apporti più diversi, spesso provenienti da
esperienze vissute e realizzate nelle singole parti, regioni o
stati, che compongono l’insieme. È il derivato del concorso di
gruppi, di agglomerati e di popoli nonché di istituzioni da essi
create. Un’ulteriore aggiunta di nuovi venuti, specie se è imposta
da esigenze obiettive di crescita o di sopravvivenza, può certo
rivitalizzare la società esistente. Può iniettarle forze di cui è
deficitaria. Forze necessarie per potere sopravvivere, crescere o
competere sul mercato globale. Ma l’immissione di forze esterne deve
essere molto limitata. Dunque non è razionale né conveniente
escludere del tutto ogni apporto umano esterno. Né si deve volere
che i nuovi venuti debbano annullare se stessi. Non si deve neppure
credere che la loro presenza in numero molto limitato possa minare
l’esistenza di una realtà spirituale preesistente, o formata nel
tempo, che si considera immutabile. Al contrario è un dovere
indiscutibile impedire che milioni di individui di provenienza e di
estrazione le più disparate si aggiungano alla popolazione di un
paese e che la loro invasione e la loro occupazione continuino nel
tempo. In tal caso la loro presenza, prima o poi, non può non
riuscire mortale; uccide l’identità esistente e non ne sostituisce
una nuova, come avverrebbe se invasore fosse un popolo intero. E in
Occidente la varietà delle nazionalità cui appartengono gli
immigrati è straordinariamente ampia. Sono una trentina di
nazionalità e formano una tale varietà che, in Italia, è stata
definita «arcipelago migratorio». Un popolo intero ha un’esistenza
collettiva di costumi e di ideali sostanzialmente omogenea, almeno
in gran parte, che reca ovunque con sé e tramanda alle nuove
generazioni. Nel caso che attui un’invasione, la sua presenza si
sostituisce o si aggiunge a quella del popolo decadente e in
diminuzione numerica del paese invaso. Al contrario, diverso e
opposto è il portato dell’invasione di milioni di individui e di
un’infinità di gruppi di immigrati della più disparata provenienza e
della più diversa etnìa. Essi non hanno un’esistenza collettiva che
possa dirsi o possa divenire autonoma ed omogenea. Vivono insieme in
una società ospitante senza mai addivenire a una propria esistenza
di popolo. Anzi senza intendersi né gli uni gli altri e né con gli
ospitanti, di là dell’intesa che avviene in superficie, e senza
giungere a un’unità di costumi e di ideali, anche se professano la
medesima religione. Nei paesi dell’Unione Europea si sta oggi
verificando proprio l’invasione di milioni di individui di diversa
provenienza ed etnìa che si presume non si intenderanno mai
sostanzialmente né tra loro né con gli autoctoni. [...]
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