Libro con copertina morbida, pag. 272.
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“Caterina aveva appena compiuto sedici anni e da tempo si era fatta avvenente, quando un giorno accadde qualcosa che sconvolse le sue tranquille abitudini di vita. Nel negozio entrò un giovane che non si era mai visto prima. Forse era stato informato dell’avvenenza e della bellezza della ragazza ed era là per questo. O forse si era trovato per caso a passare e aveva avuto il desiderio di acquistare un po’ di carne di bue. Fatto sta che ordinò un taglio di filetto, attese che gli fosse detta la somma da pagare e porse un biglietto da venticinque lire. Nel 1924 era un biglietto che si vedeva raramente in circolazione, forse non si vedeva mai in quegli anni di deflazione o si usava solo nelle grosse contrattazioni. Caterina prese il biglietto e lo pose sul bancone ...” È rivissuta una complessa vicenda che si svolge nei primi decenni del novecento in alcune contrade del Mezzogiorno d’Italia. I fatti narrati e i personaggi rendono vivo e attraente il particolare e difficile ambiente in cui si muovono.
omissis
Per poco più di un chilometro, tra le pendici dell’Aspromonte e il mar Tirreno, si stende Fossa, una delle cittadine che, a breve distanza, si susseguono lungo quella costa. In una delle case della zona centrale del suo abitato nascevano Caterina e Nunziatina, gemelle, nel marzo 1908, nove mesi prima che il disastroso cataclisma producesse distruzione e morte nei paesi e nelle città di quei luoghi. Ancora in fasce, mentre Nunziatina restò illesa nella sua culla, Caterina si salvò per miracolo dalla furia del sisma che la scaraventò fuori di casa, dove morirono tre suoi fratellini. Fu trovata qualche ora dopo in mezzo alla strada, con braccia e gambe in movimento.
L’avvenimento era eccezionale e, in altre circostanze, avrebbe indotto a gridare al miracolo. In quei frangenti di smarrimento, di confusione e di paura nessuno vi fece caso. Solo in seguito, quando si furono calmate le acque, i genitori e qualche parente tornarono molte volte a rievocarlo. E specialmente quando osservavano qualche gesto della bambina che si faceva sempre più bella, ripetevano che quanto le era capitato doveva essere un segno del destino. «Solo la mano di Dio e della Vergine Maria – diceva ogni volta la madre in quelle occasioni, guardando la piccola con gli occhi ridenti – hanno salvato quest’innocente». E di solito pensavano e dicevano che quell’essere così piccolo e indifeso era da ritenere un dono divino. Era la Provvidenza che l’aveva mandato e salvato e bisognava trattarlo con riguardo. E i genitori trattarono sempre con riguardo quella bambina, anche se non confessarono mai nemmeno a se stessi che quel particolare trattamento che le riservavano era una necessità, un obbligo verso la Divina Provvidenza. Non lo confessarono, ma lo sentirono sempre ed ebbero per la bambina che cresceva un particolare riguardo. Videro sempre in lei una natura speciale e le attribuirono requisiti che erano prematuri per la sua età.
La bambina meritò la particolare e affettuosa attenzione dei
genitori. Come Nunziatina e come un’altra sorella, Francesca, che
nascerà tre anni dopo, fu allevata nell’ambiente tranquillo della
famiglia in cui aleggiava la serenità e primeggiava la semplicità
del costume di vita nonostante gli impegni della madre, distratta
dalle cure della casa e dal lavoro, e le frequenti assenze del
padre. Crebbe sana e paffuta. Da bambina, come fecero le sue
sorelle, contribuì ad alleviare il peso che la madre si addossava
accudendo alle faccende di casa. E contribuì ancor più,
comportandosi come un’adulta, da quando, a nove anni, perse il
padre. Frequentò la scuola elementare fino a conseguire, a undici
anni, la licenza di quinta classe con bei voti. Non proseguì negli
studi perché la madre, donna Carmela Arcuri in Gennaro, decise che
quell’istruzione fino allora acquisita era più che sufficiente. «Le
figlie femmine devono stare sotto il letto», rispondeva alla maestra
che le consigliava di far continuare gli studi alla ragazza molto
promettente. Si esprimeva con tanta sicurezza perché era convinta di
avere già concesso molto più di quanto le suggeriva la propria
condizione di analfabeta. Era pure persuasa dell’utilità di avere
dalla figlia un aiuto in casa, dove c’era molto da fare, anche
perché era sola ad accudire alla conduzione di una macelleria
situata nel pianterreno della propria abitazione. Per esperienza
personale sapeva che i lavori domestici gratificavano le figlie
femmine più della scuola e le avviavano a essere buone spose e buone
madri e a sapere governare la casa. «Nelle famiglie in cui c’è molto
da fare – diceva talvolta alle figlie – la donna è occupata
abbastanza, più di quanto sarebbe se svolgesse una professione.
All’impiego fuori delle mura domestiche possono certo dedicarsi le
donne che non ne hanno già uno in casa». E in casa il lavoro era
pesante. Caterina, Nunziatina e Francesca, benché fossero ancora
fanciulle, avevano, ognuna, un compito da svolgere. Lavavano i panni
nella vasca posta nell’atrio retrostante del pianterreno, stiravano,
pulivano le stanze. Quando avevano finito di assolvere queste
incombenze che non erano lievi, aiutavano la madre nella macelleria
ed erano brave nel distinguere le varie parti del corpo dell’animale
sezionato e appeso ai ganci. Caterina faceva pure da contabile e da
cassiera. Dietro il bancone calcolava la somma da esigere con una
tale sveltezza che destava l’ammirazione della madre. Era una
fanciulla posata e aveva l’aspetto e l’espressione di una
signorinella. Portava intrecciati i lunghi [...].
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omissis
La casa paterna, dove andarono ad abitare Vincenzo e la sposa, era a due piani, una casa padronale. Un portone centrale, un ampio ingresso, due porte laterali e una in fondo davano alle stanze del pianterreno. Una lunga scala a due rampe immetteva al primo piano e continuava fino alla terrazza. Di fronte alla casa, al di là della strada e accanto all’abitazione e al forno di Domenico, sorgeva una grande baracca tutta di legno, con il tetto alto di lamiera e con un’ampia porta a due ante. Era una dipendenza della casa paterna e conteneva una stalla e un garage. In un ampio spazio stavano di solito affiancati due cavalli davanti alla mangiatoia. Uno di essi era un bell’esemplare che aveva l’apparenza di un purosangue. Vi erano pure una carrozza, un calesse basso con le ruote gommate e alcuni carretti. Più in là, in un altro ampio spazio, sostava un’auto di colore rosso, una Lancia con il lungo e squadrato cofano del motore. Alla stalla, alla cura dei cavalli e alla conduzione dei veicoli a trazione animale accudiva Mico, un uomo rosso in viso e leale fino all’inverosimile specie con Vincenzo, che egli chiamava don Cecé e adorava. Era un dipendente fisso. Ogni giorno conduceva il calesse seduto accanto a Vincenzo che andava a fare il lungo giro dei clienti o si recava in banca nella vicina città. Di pomeriggio o nei giorni di festa in cui serviva la carrozza, Mico vi attaccava un cavallo e la conduceva dov’era necessario. In alcune ore pomeridiane usciva con il carretto, si univa a molti altri carrettieri che prestavano la loro opera a nolo e trasportava sacchi di farina dai carri merci della ferrovia ai magazzini di don Cecé.
Gli sposi abitavano alcune stanze del piano superiore della casa paterna. I genitori e le sorelle di Vincenzo occupavano le altre stanze oltre parte del pianterreno. Tranne Grazina che dava una mano alla sposa e aveva per sé una delle stanze della parte della casa in cui abitava la famiglia di Vincenzo, i componenti delle due famiglie si incontravano di rado. Solo in alcuni giorni di festa passavano alcune ore insieme. Pranzavano tutti nel salone del piano di sopra, decorato con pitture variopinte di natura morta e di scene di caccia. Lì, mentre i genitori e Vincenzo attendevano seduti a tavola, la sposa e le sorelle dirigevano la persona di servizio e si davano esse stesse da fare portando le pietanze. Prendevano poi posto, ma parlavano poco. Intervenivano di rado nella conversazione tenuta viva da Vincenzo, che rivolgeva la parola all’uno e all’altro, raccontava e spiegava. Il padre parlava raramente. Di solito stava in silenzio, ascoltava ciò che si diceva e chiedeva al figlio qualche informazione relativa al commercio. Di rado staccava i grandi e sporgenti occhi dalla pietanza contenuta nel proprio piatto per osservare chi stava parlando. Le donne guardavano e ascoltavano. Qualcuna faceva menzione del tempo bello o cattivo, della pioggia o del sole cocente. Qualche altra riferiva notizie attinte dall’ultima diceria corrente in paese. Di solito tutte ascoltavano e confermavano con un movimento del capo i rilievi e le notizie appena ascoltate. La sposa osservava con curiosità gli occhi grandi e sporgenti del suocero, che lei da tempo aveva definito tra sé «occhi i burza», cioè occhi come borse. Notava pure il modo in cui quell’omone un po’ burbero teneva in mano il cucchiaio. Si stupiva che lo prendesse per il manico con il pugno chiuso e lo portasse alla bocca con un movimento goffo del braccio e della mano. Sin dal primo di quei conviti era stata colpita da quel modo di tenere il cucchiaio, come se fosse una zappa o una vanga. E aveva fatto le sue considerazioni. Quel modo di afferrare la posata le era parso proprio di zappatori. Alla stessa loro stregua lei, tra sé e sé, continuava ora a considerare il suocero che, quasi giornalmente, si recava nel proprio giardino e là passava il tempo a curare le piante.
Caterina, attenta e riflessiva, era più incline a osservare che a
parlare; anzi era di poche parole quando si trovava in compagnia di
più persone. Diveniva loquace quando parlava con qualche familiare
di sua fiducia, specialmente se raccontava quanto aveva osservato o
quanto aveva saputo del passato o del presente di familiari e
conoscenti. Di solito badava ai particolari, alle cose minute,
teneva molto alle formalità e giudicava male chi non le osservava
secondo i gusti e le conoscenze che lei aveva. Questi suoi giudizi,
che lei fondava anche su proprie istintive […]
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