Libro con copertina morbida, pag. 628.
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Si può dire che la povertà e le altre cause oggettive siano state le minori e non sempre cause determinanti del banditismo e di ogni forma di violenza. E ciò si può constatare anche osservando che in molte società e in molti paesi c'è e ci fu povertà, e spesso molta povertà, ma non banditismo e violenza. Più che l'enorme divario tra le fortune di pochi ricchi e l'estremo bisogno di molto poveri furono la prevalente arbitraria condotta e la disinvolta violazione delle leggi che produssero.
omissis
Il 28 giugno 1532 moriva il cardinale Colonna e il 4 settembre
dello stesso anno giungeva a Napoli don Pedro di Toledo. Spagnolo,
estraneo alle vicende del regno e piuttosto autoritario, il nuovo
viceré poté presto accertare che l’allarme dato dal suo predecessore
non era esagerato. Trovava che le condizioni del dominio erano
peggiori di quelle da lui denunciate. E pochi mesi dopo, il 21
giugno 1533, in una relazione sottoscritta anche dai reggenti del
consiglio collaterale e dal tesoriere del regno, scriveva al sovrano
che le finanze del dominio che governava erano dissestate, che la
mancanza di denaro non consentiva di far fronte alle richieste di
rimesse che venivano dalla Spagna e che era preclusa ogni
possibilità di «sacar dinero» nemmeno contraendo prestiti a causa
della sfiducia dei privati cresciuta per l’assottigliarsi delle
pubbliche entrate disponibili e del deficit di bilancio. Chiedeva
pertanto al sovrano di autorizzarlo a ricorrere all’unico espediente
possibile, che consisteva nel concedere ai baroni «ampliaciones de
officios». Si riprometteva di fermare la corruzione e combattere gli
abusi, ma era costretto ad accrescere il numero degli uffici
feudali, cioè ad aumentare il potere dei baroni nei feudi e a
indebolire quello regio per ricavare denaro. Intanto constatava che
il disastro non era solo finanziario. Il disordine, la corruzione,
le disfunzioni, i misfatti e la riottosità di molti sudditi di ogni
condizione sociale erano giunti agli estremi. Si accinse quindi a
correre ai ripari. Esaminò con cura la situazione e, nonostante le
difficoltà, concepì e sottopose al sovrano alcune necessarie riforme
e prese alcuni drastici provvedimenti. Nel 1535 indicava la
necessità di correggere connivenze e collusioni tra i componenti di
alti uffici, tribunali e consigli, come giudici della vicarìa,
reggenti del consiglio collaterale e tesorieri, e ufficiali e
giudici minori. Bisognava impedire che ufficiali e giudici si
arricchissero illecitamente. Proponeva che si proibissero nei
tribunali le «composizioni», cioè le conversioni di pene corporali
in pene pecuniarie, e che giudici e ufficiali venissero remunerati
con salari fissi, per impedire l’esazione di proventi indebiti e
maggiorati. Riteneva necessario che ufficiali e giudici fossero
scelti accuratamente, che nella scelta si premiasse il merito e che
non si tenesse conto delle istanze che avanzavano specialmente i
baroni per ottenere cariche e uffici in cambio di denaro o di
servizi resi alla corona. Trovava che la connivenza, la collusione,
la corruzione, gli abusi e le sopraffazioni erano cause del
malcontento, della disperazione e della reazione dei sudditi, ai
quali era perciò preclusa ogni giustizia. Tra l’altro, proponeva che
almeno due reggenti del consiglio collaterale fossero forestieri e
contraddiceva così le promesse che Ferdinando il Cattolico aveva
fatto di riservare gli alti uffici e tribunali e i consigli a
napoletani e a sudditi del regno. Indicava la necessità di prendere
drastici provvedimenti per assicurare il «culto de la justicia y
beneficio de los pueblos». Le riforme e i provvedimenti che
proponeva il viceré Toledo erano necessari per scongiurare gli
effetti deleteri della disfunzione degli uffici, della corruzione e
degli arbìtri degli ufficiali e degli abusi dei baroni nei feudi.
L’effetto più diffuso e preoccupante di tanta corruzione e di tanti
eccessi era il crescente numero di rivoltosi e fuorilegge. Le
province erano infestate di migliaia di banditi e la capitale era
sede di innumerevoli delitti. E banditi e fuorilegge trovavano
rifugio, protezione e impiego anche nei feudi. La Calabria ne era
colma e nella parte meridionale della regione affluivano, in
aggiunta a quelli esistenti, i banditi che trovavano comodo e utile
trasferirsi dalla Sicilia. Nel 1535 la loro crescente presenza e il
loro trasferimento preoccupavano il viceré, che ne faceva oggetto di
una relazione al sovrano, nella quale spiegava: «[...] que muchos
delinquentes contumaces bandidos y forbandidos y foryudicados del
Reyno de Sicilia por la comodidad que hallan en el recepto de los
barones de dicha provincia [di Calabria ultra] y de otras personas
propincas a dicho Reyno se tienen a Calabria y andan a suplazer por
las tierras y lugares de dichos barones iatandose de los delictos
que an cometido y declarando el animo que an cobrado de cometer
otros majores delictos y robos [...]». Proponeva quindi che il
sovrano lo autorizzasse a prendere drastici provvedimenti per
eliminare tanto disordine, tante violenze e tanto malcostume. E
indicava i maggiori autori di tanto scompiglio, che non erano solo i
baroni e la loro condotta, complice e connivente con i banditi, ma
la farragine di leggi, il complicato iter della giustizia e la
condotta di numerosi servitori del sovrano e tutori dell’ordine
pubblico. Per questi grandi difetti si verificava che molti
individui, specialmente benestanti, autori di efferati delitti,
riuscivano a protrarre all’infinito i tempi dei processi e delle
sentenze. Tra l’altro, sfuggivano ai processi che si sarebbero
dovuti tenere nelle udienze provinciali, facendo ricorso al
tribunale della vicarìa di Napoli. E molti ufficiali regi, come il
mastro portolano e il governatore della regia razza, solevano
creare, come facevano i baroni, loro sostituti e subalterni uomini
di malaffare, delinquenti e banditi. Negli anni seguenti, dopo avere
individuato e indicato le «cosas que [Su] Mayestad deberia arreglar
en el reyno de Napoles», si accinse a porre il necessario rimedio.
Bisognava correggere il malfunzionamento degli uffici, la condotta
degli ufficiali, la corruzione dilagante, gli abusi dei baroni nei
feudi; e soprattutto si doveva impedire che si verificassero gli
innumerevoli crimini e le violenze del crescente e minaccioso numero
di banditi. Per riuscire nella difficile impresa il Toledo andò
sempre più accentrando il potere nelle sue mani. Accrebbe il
controllo che esercitavano i membri della camera della sommaria, il
supremo organo finanziario, sui bilanci delle città e sulla condotta
dei pubblici ufficiali. Ma essendosi rivelato inefficace il
controllo esercitato da quegli ufficiali, come Bartolomeo Camerario
nominato nel 1536 e, prima di lui, Luis Ram e Alonso Sanchez, il
Toledo fece inviare dalla Spagna nel 1539 il primo visitatore
generale del regno, don Pedro Pacheco, allora vescovo di Mondoñedo.
Insistette sempre più e impose la necessità di nominare consiglieri
e alti ufficiali elementi forestieri, specialmente spagnoli.
Proseguì sulla via intrapresa. Nel 1539 riformò i più elevati organi
amministrativi e giudiziari . Fece di tutto per combattere
disfunzioni e corruzione che si perpetravano da decenni. Eliminò
qualcuna delle loro cause che egli credette principale. [...]
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omissis
All’origine del deterioramento sociale e del sostanziale mutamento
dei rapporti tra il centro e la periferia vi erano l’indebitamento
della finanza pubblica e il connesso cedimento e indebolimento del
potere regio. Nel seicento, e specialmente dopo il secondo decennio,
andarono sempre più aumentando la pressione fiscale, l’entrata e la
spesa pubblica, mentre decrebbe il numero degli abitanti e
all’inflazione non più galoppante si alternarono fasi di deflazione.
Il derivante maggior peso che gravò sulla popolazione si aggiunse
alle numerose epidemie che esplosero qua e là e all’aumento del
numero delle sopraffazioni e dei sopraffattori. Tutto ciò fu un
flagello che rese l’esistenza malsicura e insopportabile più di
quanto fosse stata nel secolo precedente, quando si erano andate
formando le condizioni del deterioramento e dello sconvolgimento.
Nel corso del cinquecento la spesa pubblica era sempre stata
eccessiva, il deficit del bilancio continuo e il debito pubblico
crescente fino ad assorbire alla fine del secolo la massima parte
delle entrate, mentre il patrimonio regio si era andato spogliando
di cespiti, di diritti e di prerogative. Ma allora il sovrano era
stato fermamente convinto della necessità di porre un freno al
prevalente andazzo, di rimettere ordine, di imporre il proprio
potere e la propria autorità e di assicurare la pace e la sicurezza
ai sudditi. E aveva dato direttive in tal senso, anche se era stato
costretto dal bisogno finanziario a contraddirle spesso chiedendo
assistenze e contributi, che il governo del regno aveva dovuto
sempre procurarsi a scapito della propria autorità e della propria
azione. Anche se tra molte difficoltà, il governo del regno aveva
imposto la propria autorità e aveva cercato sempre di mettere
ordine. Dal quarto decennio del cinquecento aveva provveduto a
combattere il malcostume, a impedire eccessi e prevaricazioni e a
tutelare le prerogative della giurisdizione regia. Viceré come il
Toledo, l’Alcalà, il Granvelle, l’Olivares avevano cercato di
limitare la spesa pubblica e di contenere l’indebitamento e
l’alienazione del patrimonio regio. Nel governare erano stati
attenti e, spesso, severi, ma avevano incontrato grandi ostacoli
essendosi dovuti adeguare alle contraddittorie direttive del sovrano
e del governo di Madrid. All’avvento di Filippo III al trono di
Spagna nel 1598 il deterioramento delle condizioni del regno era
giunto agli estremi limiti e procedeva senza sosta. Nei primi anni
del seicento aumentavano la pressione fiscale e l’entrata pubblica,
che era sempre stata insufficiente a coprire la spesa producendo
continuo deficit, e si accumulava altro debito. Per far fronte alle
perenni necessità finanziarie della monarchia, il sovrano
autorizzava la vendita di diritti, di uffici, di prerogative e di
ogni restante cespite del proprio patrimonio. Continuava così a
spogliarsi del proprio potere e a menomare l’autorità del governo e
l’efficacia dei suoi provvedimenti. Nel regno la corruzione e le
disfunzioni crescevano a dismisura. I provvedimenti che aveva preso
il governo nel corso del cinquecento per contenerle avevano avuto
scarsi risultati. Neppure le visite generali avevano avuto migliore
esito. I solerti visitatori, come don Gaspare De Quiroga dal 1561 al
1563 e don Lope De Guzmán dal 1581 al 1583, avevano più volte
battuto il territorio, erano penetrati nei feudi e negli uffici,
avevano esaminato migliaia di testimoni. Avevano raccolto accuse e
denunce e avevano scoperto corruzione, abusi, illegalità e i loro
autori. Avevano, ogni volta, inviato montagne di carte processuali
in Spagna, da dove, dopo anni, erano giunte le punizioni. Ma nel
frattempo gli accusati, autori della corruzione e degli abusi,
avevano continuato ad abusare e a rubare «più assai di prima»,
mentre coloro che avevano subìto le punizioni tornavano ad occupare
uffici e cariche, ad amministrare, ad abusare e a commettere eccessi
come avevano fatto in passato. Nel seicento aumentarono corruzione e
disfunzioni e le difficoltà di contenerle. Nel primo decennio il
viceré conte di Benavente si trovò a governare un paese sull’orlo
della bancarotta e constatò la propria impotenza a porvi rimedio.
Mentre persisteva la mancanza di risorse, continuavano a piovere le
richieste di contributi provenienti dalla Spagna. La situazione era
insostenibile e bisognava uscirne o trovando nuove risorse o
interrompendo la fornitura di contributi. Non potendo rinunciare
alle rimesse di contributi, il sovrano e i suoi ministri di Madrid
decisero di ricorrere al reperimento di nuove risorse. Quando nel
1610 giunse a Napoli il viceré conte di Lemos, successore del
Benavente, il dissesto era totale. La finanza pubblica era
fallimentare, l’amministrazione era corrotta e mal funzionante, il
disordine diffuso e i provvedimenti del governo inefficaci. Il Lemos
mise mano ad alcune riforme per normalizzare soprattutto la critica
situazione finanziaria e amministrativa. Emersero irregolarità nella
condotta di alti ufficiali, falsità ed errori contabili anche nelle
voci del bilancio. Si eliminarono alcune spese e furono corretti
eccessi, disfunzioni e abusi; e si riuscì a recuperare ingenti
somme. I risultati erano notevoli, ma furono di breve durata,
annullate presto da incalzanti richieste di denaro da inviare fuori
del regno. Le superiori esigenze della monarchia continuarono a
prevalere su quelle del dominio. Era facile constatare che le
risorse che si andavano recuperando, invece di essere destinate alle
necessità di governo e al contenimento del debito pubblico, dovevano
coprire le incessanti richieste di assistenze che giungevano dalla
Spagna. Era pure facile dedurre che se si voleva dare forza e
autorità al governo per realizzare nel regno un’efficace opera di
risanamento, bisognava disporre dei mezzi necessari, impiegando le
risorse disponibili che in gran parte erano inviate fuori, destinate
alle rimesse di contributi. Bisognava procurarsi quei mezzi facendo
restare nel regno le risorse disponibili. Come aveva fatto per primo
il viceré Toledo otto decenni prima, quando aveva proposto al
sovrano la temporanea interruzione della richiesta di contributi per
evitare che nel regno crescessero la spesa e il debito pubblico
allora modesto, il Lemos indicò quella sola via da seguire. Propose
al sovrano di rinunciare temporaneamente alle rimesse di assistenze
per consentirgli di governare con efficacia. Ma come era successo al
Toledo e, poi, all’Alcalà, la proposta del Lemos non ebbe esito. Pur
essendo apprezzata a Corte, quella proposta non poteva avere esito,
come proposte del genere non l’avevano mai avuto in passato, perché
cozzava con il persistente e crescente bisogno di denaro della
monarchia . Falliva così il tentativo del Lemos di invertire la
rotta. Si dileguavano presto i risultati della sua azione di
governo, come svanivano gli sforzi che il suo successore, il viceré
duca d’Ossuna, faceva dal 1616 al 1620 per migliorare le condizioni
del regno. Con quanto poteva disporre, egli si prodigò per
restituire libertà e autorità ai tribunali eliminando abusi e
ingiustizie, per [...]
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