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Mezzogiorno moderno e capitalismo

Libro con copertina morbida, pag. 324.


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Secondo tesi prevalenti e molto accreditate l’economia del Mezzogiorno nel Seicento è in recessione e in una prolungata crisi che si manifesta nella diminuzione dell’esportazione, della produzione, del reddito e della ricchezza. Un’analisi accurata dei dati disponibili consente all’autore di questo libro di formulare una diversa ricostruzione dell’andamento economico e di giungere a conclusioni che contrastano con le tesi finora sostenute. Constata che nel corso del secolo si fece ricorso alla coltivazione di terre prima incolte e continuarono a crescere la produzione e l’effettiva esportazione. Aumentò il reddito, ma la sua distribuzione non fu equa e, nonostante ciò, non promosse che scarsi investimenti. Si tradusse, al contrario, soprattutto nel tesoreggiamento e nell’enorme arricchimento dei detentori di capitale, di terra e di posizioni sociali privilegiate.


omissis

Riformulando in parte una sua vecchia tesi sull’economia del Seicento, nel 1982 Galasso indica alcune curve. Trova che dall’ultimo decennio del secolo XVI l’aumento della popolazione supera quello della produzione mentre prima, specie durante il grande balzo produttivo collocato dal 1540 al 1580, era avvenuto il contrario: la crescita della produzione aveva superato l’aumento della popolazione. Trova pure che «Nonostante la divaricazione tra spinta produttiva e spinta demografica, il Regno continua ad essere un grande esportatore [...] su valori che [...] girano sempre intorno a quelli attinti negli anni ‘70 e ‘80 del secolo XVI, e cioè al massimo dell’espansione economica e sulla linea più alta della produzione che essa assicura». Sulla base di queste constatazioni egli formula una domanda che nasce spontanea, alla quale dà finalmente una risposta ben definita e, nello stesso tempo, affatto sorprendente: «Come si concilia — egli si domanda —, allora, la stabilizzazione produttiva che sopravviene in quegli anni col perdurare sia della spinta demografica che della funzione del Regno come grande paese esportatore di prodotti agrari? La risposta è nell’alta compressione sociale e nel sostanziale contenimento dei consumi di massa a cui il paese viene sottoposto». C'è voluto qualche decennio di ipotesi e di riflessioni per giungere a formulare un'affermazione definita, che coincide con ciò che io sostengo dal 1963 e che contraddice ogni precedente spiegazione tentata da Galasso mediante riferimenti al concorso di diversi fattori. Si può dire che i tentativi di Galasso di dare un’occhiata attenta al fenomeno tal dei tali siano sommersi da ipotesi, dalla necessità di dovere considerare altri aspetti finora non studiati, dalle molteplici facce del problema, cioè da una serie di contributi che non esistono in atto e che dunque non consentono di formulare una tesi chiara e semplice che si possa esporre in un comprensibile assunto. È vero che le scienze umane sono opinabili e danno adito alle più disparate interpretazioni. Ma è pure vero che, sulla base di dati attendibili, si può ricostruire un determinato fenomeno nei suoi caratteri essenziali con una certa precisione. Si può uscire da quell’indeterminatezza di concetti, che rende possibile scrivere sugli argomenti più diversi e rende sovente incomprensibile qualsiasi particolare fenomeno, facendolo oggetto delle più complicate disquisizioni e rendendolo talmente incerto e vago che di esso si può dire tutto e il contrario di tutto. Come abbiamo visto, nel 1965, egli respinge le conclusioni a cui io ero giunto nel 1963 e rimanda all’esame di «una base assai più ampia», che però non esamina mai, per spiegare le cause di quel fenomeno in sostituzione delle conclusioni da me tratte. Molti anni dopo, avendo dimenticato i suoi stessi vecchi propositi, invece di trovare cause da sostituire a quelle da me indicate, scopre le stesse cause che io avevo indicate nel 1963. Scrive infatti nel 1982: «La risposta è nell'alta compressione sociale e nel sostanziale contenimento dei consumi di massa a cui il paese viene sottoposto». Nel 1982 Galasso scopre dunque ciò che io ho sostenuto nel mio primo articolo del 1963 e nel mio libro pubblicato nel 1966: che cioè mentre la massa della popolazione stringe la cinghia e si comprime il consumo e dunque resta bassa la domanda interna di prodotti agricoli, la produzione trova sbocco all’estero. E — a mio avviso — non lo trova solo con le quantità esportate che risultano dai dati delle dogane, ma soprattutto con le grandi occulte quantità esportate clandestinamente. A incrementare lo sbocco clandestino provvede il contrabbando che effettuano i baroni e i produttori nel Cinquecento, quando si verifica notevole aumento della popolazione e aumento ufficiale dell’esportazione e quindi della produzione, e più ancora nel Seicento, quando l’aumento della popolazione è minimo o non c’è e l’esportazione ufficiale è in diminuzione mentre (e forse perché) cresce l’esportazione clandestina, che lo Stato distratto da gravosi problemi finanziari pressoché irrisolvibili e l’inefficiente burocrazia corrotta fino all’inverosimile non riescono più neppure a contenere entro certi limiti. Galasso giunge alla sua nuova tesi, che è ripetizione di ciò che è stato detto da tempo, solo nel 1982. Per convincerlo in tal senso c’è voluta la lettura degli scritti di autori che hanno studiato i paesi del Terzo Mondo, i paesi sottosviluppati. C’è voluta la lettura di ciò che Carlo M. Cipolla sostiene da decenni sulle società e sulle economie preindustriali. Quantunque insista sulla necessità di spiegare certi fattori economici, Galasso dunque finisce per rispondere alla domanda che nasce dal fatto che il regno dall’ultimo decennio del Cinquecento continua a tenere alto il livello dell’esportazione e a registrare aumento della popolazione mentre si verifica «la stabilizzazione» della produzione, affermando che la ragione di ciò è «nell’alta compressione sociale e nel sostanziale contenimento dei consumi di massa a cui il paese viene sottoposto». Per esprimerci in altri termini, Galasso sostiene in sostanza che l’aumento della ricchezza del ceto dominante, che era il ceto esportatore o il ceto che riceveva i maggiori benefici dall’esportazione, era determinato dall’azione stessa del ceto dominante. Questo ceto manteneva alto il livello dell’esportazione in un periodo in cui nel paese continuava ad aumentare la popolazione ed era stabile, a dire di Galasso, il livello della produzione, mediante appunto la «alta compressione sociale» e il «sostanziale contenimento dei consumi di massa», cioè mediante la compressione del consumo popolare. E allora — come ho già dimostrato da tempo — il ceto dominante metteva in atto tale compressione nell’unico modo possibile. Agiva nel settore economico, in quello sociale e in quello amministrativo, mediante l’elevazione delle rendite della terra e del capitale, mediante il trasferimento di gran parte del gravame fiscale sul ceto meno abbiente e mediante il potere, occulto e palese, che esercitava a proprio vantaggio nella società, nella pubblica amministrazione della giustizia regia e nella gestione e negli organi elettivi delle città e delle terre del regno. Galasso si serve dunque di alcune circonlocuzioni e fa un forbito ragionamento per sostenere nel 1982 ciò che aveva negato nel 1965. Nonostante ciò la sua vecchia tesi, che egli stesso contraddice nella sostanza (quantunque nella forma egli continui a sostenere che bisogna guardare all’economia, alla crisi economica e produttiva, al sorpasso della popolazione rispetto alla produzione, per capire la società), è invece pedissequamente e passivamente assunta a canone di interpretazione dalla maggior parte di coloro che scrivono sul Mezzogiorno moderno. […]
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Costante scopo del governo fu di assicurare l’abbondanza di alcuni generi all’interno del regno e specie alla città di Napoli, facendo restare nel paese un certo margine di eccedenza rispetto al normale consumo della popolazione per mantenere relativamente bassi i prezzi. Costante scopo di produttori e di mercanti fu di realizzare i maggiori utili possibili, vendendo i prodotti agricoli all’interno e all’estero a prezzi elevati. Il governo cercò sempre di limitare le esportazioni, quantunque ciò arrecasse danni alle sue finanze a causa della diminuzione delle entrate doganali; i produttori e i mercanti praticarono l’incetta all’interno del regno e puntarono a un maggiore sbocco all’estero per vendere a più alti prezzi. Il governo, i produttori e i mercanti avevano scopi diversi e contrastanti, ma concordavano nel comune interesse a poter contare su una maggiore quantità di prodotti da esportare per accrescere, l’uno, le sue entrate e, gli altri, i loro utili. L’aumento della produzione avrebbe consentito al governo di potere autorizzare maggiori esportazioni accrescendo le entrate doganali e ai produttori e ai mercanti di potere disporre di un maggiore volume di prodotti da esportare per realizzare più elevati guadagni pur continuando a praticare l’incetta e a causare l’aumento dei prezzi all’interno. L’aumento della produzione sarebbe tornato utile all’uno e agli altri. In particolari periodi, specie nei decenni della seconda metà del Cinquecento in cui era in atto il notevole aumento della popolazione, il governo cercava di sopperire alle nascenti necessità. A tal fine consentiva nel 1562 che due mila «carri» di terre a pascolo (che poi furono portati a tre mila) della dogana delle pecore di Puglia fossero coltivate a grano. La concessione del governo a «massaros de campo» per «cultivar y sembrar» rifletteva in sostanza la generale tendenza che allora era in atto di coltivare più grano, mettendo a cultura terre prima incolte o destinate a pascolo. L’aumento della produzione di grano riduceva certo la terra a pascolo e procedeva insieme con l’aumento, più o meno accentuato a seconda dei luoghi, di altre produzioni, specie della seta e del vino. Nelle previsioni che il governo aveva formulato già nel 1561 la concessione avrebbe dovuto essere di tre mila carri di territorio e avrebbe avuto notevoli positivi effetti.

«[...] librando [i massari] el territorio saldo y descansado, el quale podria sufrir de sembrarse seis años arreo, harian gran cogida de trigo bastante no solamente a tener abundante el Reyno, pero tambien para poderse dar tratas para fuera del, de las quales la Regia Corte vendria a rescibir grande utilidad del pagamento dellas, y acabados los seis años dize que se les permutassen los dichos tres mill carros en otros tres mill de los otros descansados, y assi de mano en mano cada seis años se les diessen nuevos territorios en forma tal que cada veynte y quatro años se cultivarìa y sembrarla toda la Pulla, no ocupandose mas territorio en sembrar del que agora se ocupa, pero dandoles la mejoría a los massaros del campo del territorio holgado».

L’aumento della produzione di grano sarebbe stato inoltre sufficiente a coprire il fabbisogno interno del regno e a creare un’eccedenza notevole che avrebbe alimentato l’esportazione del prodotto. Da essa il governo si riprometteva di ricavare considerevoli entrate mediante la concessione delle «tratte», cioè delle licenze di esportazione, e l’imposizione di dazi doganali. Nonostante i progetti del governo, l’esportazione di grano diminuì allora e negli anni successivi. Tale diminuzione, che si riferisce all’esportazione del prodotto che passava per la dogana negli anni in cui erano aperte le tratte, non ci sembra però indicativa di una corrispondente diminuzione della produzione. Il consumo interno, e specie l’autoconsumo, assorbì sempre gran parte del grano prodotto nel regno. Le proibizioni delle tratte, che erano sovente rinnovate ogni anno per molti anni consecutivi nel Cinquecento e nel Seicento, sono certo indicative dell’incapacità del governo di calcolare con una certa approssimazione l’entità della produzione. Esse sono pure una prova evidente del timore dell’eventuale insufficienza della produzione, occultata in parte dalla speculazione e nascosta in capienti fosse in attesa di carestie e di più alti prezzi. Nei pochi anni in cui il governo apriva le tratte, una parte dell’eccedenza seguiva la via ufficialmente autorizzata e trovava sbocco all’estero o, come al solito, veniva occultata dagli speculatori. All’estero era destinata occultamente parte della produzione interna anche negli anni di carestia. Ciò avvenne sia durante il Cinquecento, quando non era rara l’importazione di grano da paesi del Mediterraneo, come la Turchia, sia durante il Seicento, quando l’importazione proveniva dal nord Europa. L’afflusso di grano nel Mediterraneo era in aumento nel Seicento e giungeva specie dalla Polonia su navi inglesi, olandesi e francesi. Ma ci sembra che la maggiore disponibilità del prodotto nel Mediterraneo non abbia influito sulla quantità della produzione nel regno. Qui il grano è stato sempre, o è stato reso sempre artificialmente insufficiente in certi anni, che furono alquanto numerosi, anche durante il Cinquecento, quando ancora non vi era afflusso del prodotto dal nord Europa e nel regno era frequente il ricorso all’importazione di grano dalla Turchia e da altri paesi del Mediterraneo. Dagli ultimi decenni del Cinquecento ci fu certo nel regno un mutamento della tendenza a produrre più grano, a destinare a cultura di grano terre che erano state prima destinate al pascolo. Altri prodotti agricoli destarono l’interesse dei produttori e degli speculatori. Pur restando elevata la produzione di grano, altre terre furono messe a cultura ma furono coltivate prevalentemente a gelsi e a viti. […]
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